- Ubaldo Muzzatti
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Il territorio continua a subire l'imposizione di ripartizioni amministrative senza che il dibattito sua fondato da un'analisi delle esperienze internazionali e delle specifiche necessità delle diverse parti in cui è strutturato, Nel dibattito interviene Ubaldo Muzzatti con alcune considerazioni pubblicate il 12 ottobre 2021 sul Messaggero Veneto
Leggo su queste pagine che la Pro Pordenone rimpiange ed auspica il ritorno della Provincia.
Non vi è dubbio che i piccoli Comuni abbiano bisogno di una aggregazione, di un ente, che si collochi tra essi e la Regione, per lo svolgimento di quei compiti che le municipalità medio-piccole non possono più svolgere in modo efficace ed economicamente sostenibile. Ciò però non riguarda le città che hanno al loro interno le risorse umane e materiali per gestirsi in autonomia. Milano non ha mai avuto bisogno della provincia per gestire il teatro alla Scala (e tutto il resto, ovviamente), così Trieste. Non sarà Pordenone ad aver bisogno di un ente sovracomunale per gestire le proprie cose.
Il limite, mai superato, della Provincia sta proprio nel fatto che avrebbe dovuto essere un ente per il territorio, che ha esigenze e problematiche proprie, e non perla città, le cui strutture e dinamiche richiamano una diversa amministrazione. Il necessario ente intermedio per il territorio deve essere costituito da soli comuni extra urbani, insediato in uno di essi (e non in città) e gestito da chi sul quel territorio vive e lavora. Per fare ciò non occorre inventare nulla e non serve correre rischi: ci sono esempi collaudati da tempo in giro per l'Europa e anche a due passi da noi.
Invece di volgere lo sguardo all'indietro basterà guardare alla strutturazione delle autonomie locali di Germania, Svizzera e Austria dove, appunto, gli enti amministrativi del territorio extra urbano non fanno capo alle città maggiori; alla riforma territoriale francese del 2014, con la quale si supera il Département (la provincia) e si istituiscono le Comunità di Comuni; infine si può guardare alla riforma danese del 2006: Comune, Regione, Stato, UE. Punto. Ovviamente i Comuni sono stati adeguati alle nuove esigenze mediante accorpamento, passando dai 270 ai 98 post riforma.
Insomma bisogna guardarsi intorno e scrollarsi di dosso il provincialismo. —
- Fulvio Mattioni
- Articolo
Articolo di Fulvio Mattioni su La Vita Cattolica del 6 ottobre 2021
La ripresa è in atto e sta avvenendo ad un tasso di crescita più alto del previsto, circa il 6%» ha affermato Carlo Cottarelli al teatro Verdi di Pordenone.
Il premier Draghi, il 29 settembre presentando la Nadef 2021 – la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza – chiarisce che «la sfida più importante è quella di rendere la ripresa equa, sostenibile e duratura». Significa che la crescita non può lasciare indietro tante persone, che non può essere finanziata all’infinito dallo Stato e che i tassi di crescita del 2023, 2024 e successivi non debbono crollare a seguito del venire meno della spesa pubblica straordinaria resa possibile dalla strategia comunitaria Next Generation EU. È un chiaro invito alle imprese a fare la loro parte recuperando il mercato e il lavoro perso negli ultimi 20 anni.
Due domande: c’è la ripresa? E se sì, che ripresa è?
Secondo lo scenario programmatico esposto nella Nadef 2021 c’è e si quantifica con un +6% del Pil nel 2021, che è la crescita già prevista dalla Nadef 2020.
Cottarelli, dunque, confronta mele con pere comparando la Nadef 2021 di fine settembre con il Def 2021 approvato ad aprile.
Perché?
Ma perché la Nadef è di gran lunga più realistica del Def giacché considera oltre 8 mesi di tempo mentre il Def appena un trimestre.
Che ripresa è, ci chiedevamo anche.
- Roberto Muradore
- Articolo
Intervista di Stefano Damiani a Roberto Muradore in occasione della pubblicazione del libro «L’uomo che camminava sui pezzi di vetro» (L’Orto della cultura 2021).
L'intervista è stata pubblicata sul periodico "La Vita Cattolica" del 6 ottobre 2021
Il Friuli per rinascere, per uscire dalla crisi in cui anche la pandemia lo ha portato, ha bisogno di ricostruire il senso di comunità, perché «la comunità ha il germe di quel buon interclassismo che risolve i problemi». Ne è convinto Roberto Muradore, già segretario generale della Cisl di Udine e della Bassa friulana, «L’uomo che camminava sui pezzi di vetro», come si intitola – riprendendo la canzone di De Gregori – il recente libro uscito di recente e nel quale ha voluto raccontare quarant’anni di sindacato. Quarant’anni vissuti andando spesso controcorrente e avventurandosi quindi anche su terreni difficili – di qui il titolo del libro – per rispondere ad un’idea di impegno sindacale volto alla ricerca del «bene comune».
Muradore, con questo libro che messaggio ha voluto lanciare e a chi?
«La prima cosa che volevo fare era fissare la memoria. I singoli ma anche le organizzazioni, in questo caso il sindacato, se non hanno memoria non hanno identità e se non hanno identità non esistono. E lo offro a tutti coloro che sono dirigenti di organizzazioni, partitiche, sindacali, economiche, perché capiscano che quando serve è necessario uscire dal coro. Il conformismo nelle organizzazioni uccide la buona rappresentanza».
Di che cosa principalmente vorrebbe rimanesse memoria?
«Sicuramente non vorrei che fosse dimenticato che hanno sbagliato coloro che hanno accettato in modo acritico la narrazione di una globalizzazione neoliberale che veniva considerata positiva in quanto, in fondo, dava da mangiare anche ai paesi del terzo e quarto mondo. Purtroppo ha vinto la narrazione bugiarda secondo cui tutte le ideologie sono sbagliate e l’unica cosa che conta è un mercato senza freni e regole. La globalizzazione c’è sempre stata, ma va governata. Invece, purtroppo, la politica ha abdicato a questo ruolo. Vorrei anche che si ricordasse che la risposta alla globalizzazione è la comunità. La comunità è interclassista e il germe del buon interclassismo risolve i problemi degli ultimi».
Qui in Friuli questo senso di comunità c’è ancora?
«Bisogna ricostruirlo. Sicuramente c’è un senso di identità – propedeutica alla comunità – che va alimentato, ma in modo positivo, non chiuso. In questo senso io sono autonomista, che significa essere aperti. Bisogna partire dal campanile, che non va confuso con campanilismo. È ovviamente ridicolo il singolo paesotto che vuole la sua zona industriale o il suo campo di calcio a tutti i costi. Il campanile però è importante perché rappresenta la mia identità: salendoci, dall’alto posso guardare il mondo e interpretarlo».
A proposito di senso di comunità. Come valuta la bocciatura della presidente di Confindustria Mareschi Danieli?
«Non conosco le logiche interne a Confindustria, ma ho una quarantennale esperienza, a volte amara, di alcune dinamiche organizzative. Posso soltanto dire che non è buona cosa ribaltare un voto di due mesi prima senza neppure spiegarne i motivi e che i personalismi, se in questo caso ci sono, fanno sempre male perché non costruiscono comunità e futuro».
Muradore, come può oggi il Friuli uscire dalla crisi?
«Mi sono preso l’epiteto di conservatore da coloro che ritenevano che il nuovo che avanza era la società terziarizzata, mentre il manifatturiero non contava più nulla.
- Ferdinando Ceschia, Gino Dorigo, Roberto Muradore
- Articolo
La visione incerta sul futuro del Friuli. Articolo di Ferdinando Ceschia, Gino Dorigo e Roberto Muradore pubblicato sul Messaggero Veneto del 1° ottobre 2021
In un articolo pubblicato su questo giornale pochi giorni or sono Franco Asquini sottolinea come il Friuli si trovi in una situazione davvero difficile e come questa realtà sia "suffragata da dati economici, anagrafici e statistici". Ed è proprio così, purtroppo. Ce lo dicono l'amara esperienza quotidiana e i dati economici e lavoristici tanto veritieri quanto crudi che, sempre dalle pagine del Messaggero Veneto, ci ha fornito l'economista Fulvio Mattioni.
Asquini afferma anche la necessità che i gruppi dirigenti locali tutti si impegnino in una comune responsabile ricerca di proposte per il Friuli e per Udine, pena il perdurare della loro irrilevanza e, soprattutto, del declino della nostra terra.
Non si può che essere d'accordo!
A tal proposito va doverosamente ricordato l'importante documento predisposto, pochi mesi fa, da Cgil, Cisl e Uil di Udine e le analisi e le proposte avanzate ripetutamente dal Comitato per la terza ricostruzione e da RilanciaFriuli.
Alcuni singoli e alcune associazioni della cosiddetta società civile, quindi, da tempo chiedono di recuperare quello spirito unitario e fattivo che permise la rinascita e la crescita della nostra terra. Inascoltati, però, poiché la maggior parte dei "sorestans" si attarda a difendere le proprie prerogative ed è colpevolmente disattenta al bene comune tanto evocato quanto disatteso.
Lo storytelling e gli annunci costruiscono consenso ma non risolvono i problemi.
Del resto la politica non è diventata soprattutto comunicazione? Ma sul fronte politico, sempre in questo giornale, abbiamo letto con piacere le due nette e concrete prese di posizione del Consigliere del Comune di Udine Federico Pirone e del Consigliere regionale Massimo Moretuzzo a sostegno dell'istituzione di una Zona logistica semplificata (Zls) se non proprio coincidente almeno fortemente connessa con il Consorzio di sviluppo economico del Friuli (Cosef).
Va ricordato che all'interno del Cosef insistono quelle imprese. tante, che producono buona parte della ricchezza regionale e che il manifatturiero, con forte vocazione all'export, è l'asset principale, irrinunciabile, della ex Provincia di Udine che è stata di gran lunga la più danneggiata dalla crisi prima e dalla pandemia poi.
L'istituzione della Zls rappresenterebbe, con i vantaggi che porta, un sostegno molto importante al sistema produttivo. Un sistema industriale che potrebbe ancor di più e meglio innovarsi nella qualità dei processi e dei prodotti, sempre nel rispetto dell'ambiente. Sia chiaro che il Friuli, e con lui la regione, non vivrà solo del e con il porto di Trieste. Le infrastrutture (porti compresi) e la logistica in genere (come anche le infrastrutture e la digitalizzazione, il sistema scolastico e della formazione professionale, ecc..,) sono fattori competitivi di contesto assolutamente indispensabili. Necessari, sì, ma non sufficienti.
- Ubaldo Muzzatti
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La proposta - Sulla logistica serve uno studio Articolo pubblicato sul Messaggero Veneto - 30 settembre 2021
Quali servizi può la logistica fornire al processo economico regionale? Sono servizi che sono ad appannaggio di soggetti locali o non locali? Le sorgenti prime dello sviluppo del territorio restano ancora il manifatturiero, l'agroalimentare, i servizi vari sostenuti ed innovati secondo le linee dettate dall'Europa.
Gentile direttore, leggo spesso su queste pagine favorevolissimi commenti sul ruolo della logistica e sui benefici che tale servizio porterebbe all'intero territorio regionale. Ogni volta che trovo questi entusiastici interventi mi torna in mente un episodio della mia cessata attività. Era qualche decennio fa e già allora era in atto una pervasi va campagna di promozione della logistica, anche sulla stampa indirizzata alla popolazione generale. Il primo effetto fu che furono avviati allora un gran numero di corsi post diploma e post laurea aventi per oggetto, appunto, la logistica. Ero tra i docenti di alcuni di questi corsi e mi ricordo che riscontravano un ottimo successo di iscrizioni, sicuramente indotto dalle attività di promozione di cui si è detto. Dopo i primi giorni di lezione, la schiera degli aspiranti tecnici o manager della logistica si assottigliava. Succedeva quando veniva chiarito che logistica significava, in pratica, trasporti, movimentazioni, distribuzione, stoccaggi magazzini e attività connesse. Tutte cose importanti e indispensabili ma non certo più di altre del processo economico quali, per esempio, la progettazione, la produzione e commercializzazione degli oggetti che poi il servizio logistico si incarica di movimentare.
La logistica, poi, è una attività composita non costituita di soli porti ed interporti, piattaforme e magazzini. Per muovere le merci ci vogliono navi, aerei, ferrovie, automezzi, container. Non mi pare ci siano in regione (e neppure in Italia) flotte, linee, mezzi e operatori nazionali adeguati. Per cui, giocoforza, buona parte dei proventi che genera la logistica sono e saranno appannaggio di soggetti non locali. Persino il tradizionale, e un tempo ben attrezzato, autotrasporto soffre non poco la concorrenza degli operatori esteri e non è più in grado, da solo, di coprire la richiesta.
Gioverebbe non poco a fare chiarezza, in regione, uno studio che prendesse in considerazione e presentasse in forma chiara e comparabile i dati reali degli occupati, dei fatturati, del valore aggiunto e delle relative imposte versate dai comparti logistica, industria, artigianato, agricoltura, turismo, servizi tradizionali e innovativi. Allora si vedrebbe, in modo inconfutabile, che in questa regione la logistica (pur importante e indispensabile) non è e non sarà la sorgente prima dello sviluppo del territorio e che neppure la città, da dove e per la quale vi si favoleggia, vive solo di quella. E che invece bisognerà puntare ancora sul manifatturiero, l'agroalimentare, i servizi vari sostenuti ed innovati secondo le linee dettate dall'Europa e fatte proprie dal governo con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Per quanto sopra è auspicabile che i decisori regionali non si facciano ammaliare da narrazioni fantastiche (e un tantino interessate) e si attengano alla realtà dei fatti.
- Stefano Damiani, Fulvio Mattioni
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In Friuli-V.G. I Neet sono il 16%. Danno da 1 milardo. Urge un piano di formazione - Intervista di Stefano Damiani a Fulvio Mattioni su "La Vita Cattolica" del 15 settembre 2021
Il tema è di particolare attualità. La conoscenza della situazione permette di definire precisi obiettivi per un Piano regionale per la formazione, in cui la crescita degli ITS (Istituti Tecnici Superiori) voluta dal PNRR e il processo di istituzione - in FVG - dei percorsi IFTS, per la certificazione di competenze professionali, assieme alla valorizzazione del sistema dell'istruzione e della formazione, possano effettivamente risolvere un nodo cruciale in tema di lavoro nel nostro territorio.
Sono oltre 30 mila – 34.323 nel 2020 – i giovani dai 15 ai 34 anni che in Friuli-Venezia Giulia non studiano né lavorano, i cosiddetti Neet (acronimo inglese che sta per Not in Employment, in Education or Training, ovvero non impiegati, non inseriti nell’istruzione o nella formazione). A dirlo sono i dati Istat. Si tratta del 16% dei giovani di questa classe d’età presenti in regione.
E anche guardando solo a coloro che hanno tra i 15 e i 29 anni, i più coinvolti nell’ istruzione e formazione, i numeri sono alti: 21.949 Neet nel 2020, pari al 13,6% di questa classe d’età.
A livello provinciale la situazione peggiore – sempre nella classe 15-29 anni – si ha a Gorizia, con il 19%, ma anche Udine (13,7%) e Trieste (13,9%) sono sopra la media regionale. Migliore performance a Pordenone, con il 10,7%. È vero – come ha evidenziato l’Istat nell’analisi sul Bes (Benessere equo e sostenibile) – che altrove in Italia le cose vanno peggio – i Neet sono il 23,3% a livello italiano, addirittura il 32,6% al sud – tuttavia si tratta di numeri preoccupanti, che fanno riflettere particolarmente in questi giorni che vedono i 38 mila studenti friulani ritornare sui banchi di scuola.
«Perdiamo oltre un miliardo di euro annui di salari e stipendi» afferma Fulvio Mattioni, economista di Rilanciafriuli che mette sul banco degli imputati imprese e Regione, esortandole a definire un grande «Piano di formazione professionale».
Mattioni, chi sono i 34 mila Neet del Friuli-V.G.?
«Sono giovani che stanno nel limbo di questa società e nell’inferno del mercato del lavoro. In Europa sono una componente importante, quasi 15 milioni, di cui oltre 3 milioni italiani. Quindi oltre il 20% dei Neet europei è italiano, a fronte di un Pil del nostro paese che rappresenta il 10% di quello europeo».
I dati regionali evidenziano che Udine ha una situazione peggiore rispetto a Pordenone.
«Questo dipende dal fatto che l’economia della provincia di Pordenone, vicina al Veneto, è più dinamica di quella del resto della Regione. Quindi patisce la crisi, ma di meno. Inoltre ha una struttura demografica più giovane. Di qui la differenza rispetto a Udine, che questi requisiti non li ha e assomiglia sempre di più a Trieste e a Gorizia».
La pandemia ha inciso nel peggiorare la situazione? «
In realtà il numero dei giovani Neet è piuttosto stabile nel tempo, con una variazione di meno di un migliaio tra il 2004 e il 2020. Il problema, quindi, è strutturale, non congiunturale».
In questi giorni sta iniziando la scuola. Che responsabilità hanno istruzione e formazione per questa situazione?
«L’argomento dell’istruzione e della formazione è carsico. Riemerge ogni anno ad intervalli regolari. L’imputato è sempre considerata la scuola che non forma come serve personale per il mondo dell’impresa. Secondo me, però, la domanda da farsi è se il mondo dell’impresa non sia forse inadeguato rispetto all’istruzione e alla formazione. La domanda non è polemica, ma nasce dalla constatazione che i nostri laureati e anche diplomati che, ahimè, fuggono all’estero senza una possibilità di rientro, all’estero sono molto apprezzati. E pochi ritornano in Italia proprio per tale motivo. C’è da chiedersi quindi se il mondo del lavoro nostrano – parlo in generale – non cerchi manodopera assai dequalificata. Una risposta affermativa in questo senso deriva dal fatto che stiamo introducendo parecchi lavoratori immigrati economici, che sono in genere assai dequalificati. Alla fin fine il tema è: l’imprenditoria nazionale e regionale pensa di essere competitiva sulla base di un costo del lavoro che certamente ci ha resi competitivi negli anni ’60-70-80 ma già meno negli anni ‘90 e meno ancora adesso quando abbiamo di fronte colossi come la Cina che hanno un costo del lavoro mostruosamente più vantaggioso rispetto al nostro e che, addirittura, fanno ricerca e innovazione? Quindi, va bene favorire il dialogo tra scuola e impresa, ma centrando l’attenzione su quello che le imprese effettivamente vogliono e su ciò a cui aspirano i nostri giovani lavoratori».
Eppure, secondo dati di Unioncamere, il Friuli-V.G. è la regione in cui c’è il più alto numero di lavoratori difficili da reperire, il 46% sul totale di quelli in ingresso.
«Questo è un dato statistico burocratico, rilevato attraverso una statistica che, francamente, non credo registri la realtà. Altrimenti non sarebbero caduti nel vuoto gli inviti al dialogo del sindacato dei lavoratori al mondo dell’impresa a mettere nero su bianco i fabbisogni di personale qualificato».
A che cosa si riferisce?
«Pochi anni fa la Cisl dell’Udinese aveva proposto un Piano di formazione per 20mila persone. Il piano prevedeva la stesura dei contenuti attraverso la collaborazione dei formandi e delle imprese interessate. La formazione e la consulenza dovevano essere erogate da tutti gli enti regionali di formazione e consulenza (pubblici e privati), doveva proseguire con uno stage all’interno dell’impresa interessata e concludersi con l’assunzione o con una scelta di lavoro autonomo o imprenditoriali. La nostra Regione, pertanto, avrebbe dovuto dare al formando una “dote” che sarebbe stata spesa presso gli enti formativi, consulenziali e per lo stage aziendale. Questo progetto, purtroppo, non ha avuto nessun seguito».
Di chi è la responsabilità? «Benché il reo che piace a tutti sia la scuola, io focalizzerei le responsabilità sul mondo dell’impresa perché non considera strategico tale progetto e sull’Amministrazione regionale che preferisce pagare una formazione burocratica pensata “a tavolino” anziché sulle esigenze di formandi ed imprese».
Ci può essere anche un errore da parte delle famiglie nell’indirizzare i propri figli?
«Può essere. Si parla spesso anche di lauree che servono e lauree che non servono. In ogni caso, a mio parere, il raccordo tra istruzione e mercato del lavoro si potrebbe trovare facilmente proprio nel settore della formazione professionale. E’ lì che si deve intervenire».
Che cosa perdiamo economicamente, ma anche socialmente, dalla perdita di questi 34 mila giovani che non studiano e non lavorano?
«Perdiamo un pezzo consistente del futuro della nostra Società perché non vengono inclusi attivamente nella vita quotidiana e nel mercato del lavoro e, quindi, nell’economia. Dal versante economico perdiamo oltre un miliardo di euro annui di salari e stipendi, le entrate fiscali corrispondenti e il pezzo di Welfare che da esso si trae per l’istruzione scolastica e la sanità/assistenza per la popolazione anziana. Insomma, tutti perdono qualcosa. Da qui il dovere di porre in essere un intervento legislativo ad hoc ed un Piano di formazione professionale finalizzato all’inserimento lavorativo dei nostri Neet. Posto, ovviamente, che la specialità nostrana voglia battere finalmente un colpo per segnalare la sua esistenza in vita e giustificare la sua utilità».
Stefano Damiani